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I Papriughe, il sapore della tradizione polignanese

today9 Aprile 2020 193

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Sabéte sande,

vine cherrènne

ca i méninne voune chiangènne,

voune chiangènne pi tutte u coure

voghene a papriughe pi li ouve

Questa è una piccola filastrocca che viene insegnata dalle nonne alla maggior parte dei bambini polignanesi, o meglio per quelli della mia generazione è stato così. La traduzione in italiano parola per parola della filastrocca sarebbe inutile da fare e ne farebbe perdere anche la “poeticità”. E’ quasi una piccola preghiera che si fa affinché il Sabato Santo arrivi il più in fretta possibile, perché i bambini che “stanno piangendo con tutto il cuore” possano finalmente ricevere “A Papriughe”

Ma da dove nasce questa nostra meravigliosa tradizione? E per i non addetti ai lavori, cosa sono precisamente ” I Papriughe”?

I Papriughe sono dei biscotti che vengono preparati generalmente il Giovedì Santo e la loro particolarità è che chiunque li prepari può sbizzarrirsi creandoli con svariate forme: il cuore, la stella, il cestino, la papera, la colomba, la pipa, il cavalluccio, la bambola e potrei andare avanti all’infinito. Questi biscotti vengono poi decorati con delle piccole uova di cioccolato e con i famosi “Anesèine” che sarebbero delle confetture colorate per dolci.

I Papriughe realizzate quest’anno da una delle mie zie, potete notare le varie forme e i famosi Aneseine che le rendono molto più colorate

Quest’anno però, io ho dovuto preparare “I Papriughe” da sola, per la prima volta in 26 anni senza l’aiuto di mia nonna, a causa di questo maledetto virus che ci tiene forzatamente a distanza. Tuttavia, ho deciso di non rinunciare alla tradizione ed ho chiamato mia nonna per chiederle la ricetta e per chiederle anche qualche informazione sulla nascita di questi biscotti particolari. La storia che mi ha raccontato è piuttosto avvincente e si intreccia con il folklore e le abitudini ancestrali dei polignanesi del secondo dopo guerra.

Anticamente infatti, i Papriughe non erano dei biscotti dolci, ma venivano preparati il Venerdì Santo, o almeno la nonna di mia nonna e dunque la mia trisavola “Annamaria” faceva così. Il venerdì si preparava e si prepara tuttora il calzone farcito con la cipolla. La massa avanzata dalla preparazione del calzone veniva poi utilizzata per creare delle piccole forme come “il cavalluccio” o “u canéstreine” (un piccolo cestino), all’interno delle quali veniva inserito un uovo, che una volta cotto diventava sodo. Queste Papriughe venivano poi donate ai bambini il giorno del Sabato Santo: da qui il “Sabéte Sande vin chérrenne ca i méninne voun chiangénne …” della poesia di cui sopra. Era l’antesignano del nostro uovo di Pasqua di cioccolato.

A Papriughe non veniva però mangiata subito dai bambini ma bisognava aspettare il Lunedì in Albis quando si raggiungeva a piedi l’abbazia di San Vito per la consueta processione “del braccio di San Vito”. Ogni bambino portava, accuratamente riposta all’interno di un fazzoletto, la propria Papriughe e solo dopo la processione, quando tutte le famiglie si spostavano sulla piccola spiaggetta di San Vito, potevano finalmente mangiarla, magari accompagnandola con qualche riccio di mare offerto dai pescatori. I più fortunati e i più ricchi avevano anche la possibilità di mangiare il “calzone con le uova” ma non tutti potevano permetterselo. Anche in questo caso, questa tradizione potrebbe essere l’antesignana delle nostre “scampagnate” il giorno di Pasquetta.

Solo qualche tempo dopo i Papriughe diventarono dei dolci. Mia nonna mi ha raccontato che sua nonna Annamaria e sua zia Annina erano delle fornaie ed erano anche un po’ in concorrenza tra loro: la prima aveva un panificio nei pressi della Piazza dell’Orologio a Polignano e la seconda in via Ranuncolo, sempre a Polignano. Entrambe iniziarono, adeguandosi ai tempi che cambiavano, a preparare anche delle Papriughe dolci (senza però mai abbandonare la tradizione di quelle salate) e mia nonna, che da loro ha imparato molto, ha conservato la loro ricetta, che continua ad utilizzare tuttora e che ha trasmesso a mia madre e a me. Si tratta dunque di una tradizione che ha attraversato ben cinque generazioni.

Prima e dopo la cottura, alcune delle Papriughe realizzate da mia nonna negli anni scorsi

Tuttavia dei piccoli cambiamenti ci sono stati anche negli ultimi anni. L’avvento delle nuove tecnologie ha reso infatti più semplice, per alcuni versi, rispettare le tradizioni ma per altri ha fatto in modo che si perdesse quella “poesia”, quel ritmo ancestrale che caratterizzava certi riti.

Quando io ero più piccola infatti, nessuno aveva nelle proprie case un forno abbastanza potente per poter cuocere i Papriughe ed è per questo motivo che bisognava portarle dal fornaio. Dunque dopo aver impastato e sistemato i Parpriughe dalle forme più varie all’interno di enormi teglie nere, le si portava dal fornaio per farle cuocere e lì spesso si aspettava ore perché arrivasse il proprio turno. Praticamente ogni polignanese portava la propria teglia al forno e c’era una fila lunghissima: ognuno rimaneva lì ad attendere per evitare che il fornaio si confondesse tra le centinaia di teglie e desse ad una le Papriughe di un’altra e viceversa. Ricordo di attese estenuanti ma cariche di tensione perché non vedevo l’ora di scoprire come sarebbero diventate le mie Papriughe una volta cotte. Ricordo il calore generato dai forni, perché si attendeva proprio nel laboratorio del fornaio, e dalla calca di gente. Ricordo anche l’ansia di quei momenti, perché avevo paura che qualcun altro scambiasse la propria teglia con la mia. Adesso quasi nessuno porta più le proprie Papriughe dal fornaio per farle cuocere perché le nuove tecnologie hanno permesso a tutti noi di avere dei forni più potenti in casa, tutto è diventato molto più comodo ma un po’ della poesia di quei tempi è venuta meno.

E’ bello comunque vedere che la tradizione continua ad essere rispettata da molti polignanesi, soprattutto in questo periodo di reclusione forzata. Io personalmente quest’ anno non sono riuscita ad essere vicino a mia nonna nella preparazione delle Papriughe ed è stato un po’ un piccolo “lutto” per me, purtroppo questo virus ha spezzato ventisei anni di tradizione. Quello che conta infatti è il poter preparare questi dolci stando tutti insieme: in queste occasioni le famiglie polignanesi si riuniscono ed i nonni insegnano la loro storia ai nipoti che stanno lì a guardare ed ascoltare ammirati e affascinati dal ripetersi incessante di questi riti. Infondo anche i più piccoli sanno di portare sulle spalle il peso di una tradizione che, se non ci fossero loro ad ascoltare e portare avanti, verrebbe meno con i loro nonni e i nonni sanno di quanto sia importante tramandare le loro storie e la loro cultura.

Si parla spesso in questi giorni del “sentirsi più italiani”: il sentimento che ci lega, paradossalmente, è stato rafforzato da questa distanza obbligata. E, forse, il rispetto delle nostre tradizione folkloristiche è uno dei tanti modi che abbiamo per sentirci più vicini.

Mentre preparavo i dolci infatti non ho smesso nemmeno per un momento di sentirmi come la bambina che ero un tempo, che in piedi su una sedia, accanto a mia nonna, cercavo di spargere i Aneséine sulle Papriughe mentre ascoltavo i suoi racconti, consapevole che un giorno il peso di tutta quella tradizione che lei mi raccontava avrei dovuto portarlo sulle spalle io e lo porto volentieri. In fondo è un bel modo per “riconoscermi” e per capire la mia e la nostra storia.

Enrica Benedetti

Scritto da: Redazione Radio Incontro

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